Meloterapia

La terapia attraverso la musica, i suoni, i canti e le danze è pratica diffusa presso numerose popolazioni. Molte divinità, soprattutto del mondo indiano, vengono rappresentate con strumenti musicali: la musica come elemento d’armonia universale e umana, di equilibrio cosmico e del corpo.
In questo spirito sono presenti nel Museo oggetti che testimoniano l’importanza del suono e del ritmo che scandisce le vicende umane, a partire dalle universali ninne-nanne.

Estratto dal volume di Antonio Scarpa  “Itinerario per la visita al Museo di Etnomedicina – Collezioni Antonio Scarpa“, Erga edizioni, Genova, 1994.

“La musica produrrebbe modificazioni apprezzabili su certe funzioni del corpo umano: verrebbe influenzata la circolazione del sangue e la pressione sanguigna, in certi casi si abbassa mentre si accelera il ritmo cardiaco. Anche il respiro viene influenzato. L’effetto animatore ed esaltante del ritmo provocato da una marcia militare è noto a chiunque, e pare si sia constatato che la rimarginazione delle ferite può essere affrettata notevolmente con l’ausilio dei suoni. Per quanto riguarda i versi, Guyetz ha creduto di poter constatare che la loro azione è in rapporto con la quantità delle sillabe e il cadere della cesura. Contrariamente a quanto si è verificato per altre terapie fisiche a base di stimoli sensoriali, la meloterapia (a parte il fatto che la musica è stata introdotta come indiscutibile elemento di conforto e di rieducazione psichica e morale nelle cliniche, negli ospedali psichiatrici, nelle carceri, ecc.) è ritornata oggi in onore.
Molte cliniche e ospedali, che sono all’avanguardia, approfittano del fatto accertato che la somministrazione di melodie, gradite a un paziente che deve essere operato, consente di ridurre alla metà la dose dell’anestetico.
In talune cliniche psichiatriche olandesi l’uso della musica è molto diffuso e ha dato ottimi risultati nel trattamento di ragazzi disadattati e con disturbi del carattere.

Per quanto riguarda l’etnomedicina, si può dire che non vi sia sistema di cura dove il tam-tam o il piffero o altro strumento musicale non vi facciano la loro apparizione.
Nel “Trattato di Sushruta”, classico della medicina tradizionale dell’India, vi è un capitolo dedicato all’azione terapeutica degli strumenti medicinali, specie tamburi.
Un complesso procedimento, a base di ceneri, polveri di una cinquantina di piante, e di ferro, lungamente bollite, dà luogo a una pasta con la quale si spalmano gli strumenti musicali. Suonandoli, si allontanano dal corpo i tossici in caso di avvelenamento o si curano determinate malattie come calcoli vescicali, emorroidi, tosse, coliche, idropisia, asma, edemi. Ma particolarmente indicati i suoni di questi strumenti sono negli avvelenamenti da cibi guasti e nei disturbi dell’apparato digerente, specie inappetenza e indigestioni.
Orbene è stato sperimentalmente dimostrato che la musica agisce intensamente sulla funzionalità dello stomaco: peristalsi, secrezione dei succhi gastrici, produzione dell’acido cloridrico, specie in soggetti musicofili.
A proposito delle varie musiche e canti adoperati dai differenti popoli nelle loro pratiche melodiche, bisogna ancora notare che ogni pezzo musicale, anche il più primitivo, ha un suo proprio ritmo, che spesso viene afferrato solo dal popolo cui appartiene.
Nei canti-danza dei Polinesiani, per esempio, sono state scoperte misure di undici, sette e cinque tempi, cioè battute che altri popoli normalmente non riescono ad afferrare, essendo a loro familiari appena i ritmi in due, in tre o in quattro tempi.
Anche la versoterapia è largamente usata. Spessissimo i medici-stregoni e i guaritori scandiscono parole o versetti magici o religiosi, alle volte incomprensibili anche a loro stessi. Nel trattato di Sushruta per ogni malattia non mancano mai le strofette propiziatorie (mantra)…”

Bibliografia:
– Scarpa A., 1980. Etnomedicina. Ed. F. Lucisano, Milano, p. 75.
– AA.VV., 1977. La musicoterapia in Italia. Cittadella, Assisi.
– AA.VV., 1979. Musiktherapie. Deutscher Kongress für Musiktherapie, Heidelberg,
  27.20.10.
– Alberano S. e Ortoncelli S., 1987. Musicoterapia. Psichiatria, Informazione.
– Antonietti A., Lorenzetti L.M., 1986. La musicoterapia attraverso i suoi scritti.
  Ricerca bibliografica 1973-1983. F. Angeli Ed., Milano.
– Critichley M.D., Henson R.A., 1987. La musica e il cervello. Studi sulla neurologia della
  musica. Piccin, Padova.
– Fossati C., 1975. La musica in terapia. La Clinica Terapeutica, LXXIV.
– Humeau S., 1991. Le musiche che guariscono. Ipsa Ed., Palermo.
– Kummel W.F., 1977. Musik und Medizin. Alber, Freiburg-München.
– Premuda L., 1953. Musica e Medicina. Minerva Medica, XLIV 

Bulto mágico

Bulto mágico” o sacchetto magico messicano

Messico (1960)
Vegetali, cera, piume

Il “bulto mágico” è un fagottino in corteccia d’albero contenente i più strani oggetti (semi di cacao (Theobroma cacao L.), incenso, piume multicolore di pappagallo (Guacamaya), stecca di bambù dalla cui lunghezza dipende l’efficacia del rito, uova di anitra, candele di cera vergine…) e una certa quantità di funghi allucinogeni (Psilocybe messicana Wassonii Heim).

 

Continua

Dopo un complesso rituale, il terapeuta prende a paia i funghi allucinogeni, finché incomincia ad avere visioni di immagini, per lo più colorate, che attibuisce ad esseri soprannaturali, che gli indicano la natura del male di cui è affetto il paziente ed il modo di curarlo.
Durante lo stato allucinogeno il terapeuta (spesso si tratta di una donna) canta, variando spesso il ritmo, strofette in lingua mazateca (apparentemente) senza senso comune e connessione.
I funghi allucinogeni entravano largamente negli antichi riti dei Maya. Da essi, come è noto, vennero recentemente estratti due alcaloidi, la psilocibina e la psilocina, che per le loro proprietà sono stati sperimentati nel trattamento delle nevrosi ansiose, delle nevrosi ipocondriache d’allarme e delle forme di ossessione e di isterismo.

 

Bibliografia:
Scarpa A., 1962. Presentazione del “Bulto Magico” (sacchetto magico) Messicano e di una registrazione fonografica del rito.
  In : Scarpa A., Miscellanea Etnoiatrica, Studi e Testi, 7, Istituto di Storia della Medicina, Università degli Studi di Milano.

– Wasson V.P. e R.G., s.d. Mushroom Ceremony of the Mazatec Indians of Mexico.
  Folkways Records and Service Corporation, NYC, USA, FR 8975.

Vaso mochica

Vaso policromo in terracotta

 

Perù (1975)
Terracotta policroma

Per informazioni più approfondite sulla “Civiltà Moche” (100-750 d.C.), riportiamo la presentazione del Museo delle Culture del Mondo, Castello D’Albertis (www.castellodalbertis.museidigenova.it).

Si sviluppa sulla costa settentrionale del Perú, lungo la valle del fiume Moche. La struttura sociale della civiltà Moche era costituita da una classe elitaria composta da sacerdoti, guaritori, soldati, amministratori e governatori e da una base sociale formata da agricoltori, pescatori, artigiani e costruttori.  I Moche realizzarono imponenti costruzioni in mattoni di argilla essiccati al sole (adobe), templi piramidali terrazzati come la Huaca del Sol e la Huaca de la Luna e opere idrauliche come l’acquedotto di Ascope.
L’economia era basata sulla pesca e sull’agricoltura. Notevole importanza avevano gli artigiani della metallurgia e della ceramica, caratterizzata quest’ultima da una bicromia arancione-crema; le forme più tipiche sono vasi a staffa,  vasi –  ritratto, vasi figurativi che riproducono figure antropomorfe, animali e piante e vasi con scene dipinte. La ceramica mochica è suddivisa in 5 fasi in rapporto all’assottigliamento dell’ansa a staffa e allo svasamento del collo del vaso, fino al momento in cui la staffa si arrotonda e insieme al collo supera in altezza  il corpo del recipiente stesso. Estremamente realistica nella sua rappresentazione di mondi “altri”, essa raffigura principi, sacerdoti, guerrieri e prigionieri ed illustra vari racconti mitici, scene di caccia e di guerra, fornendo possibili chiavi di lettura della vita che conducevano i Moche.

 

Tam-tam del Basso Congo

Tam-tam in legno ricavato da un tronco, svuotato del suo interno

 

Basso Congo (1974)
Legno

Strumento a percussione usato nelle cerimonie curative del Basso Congo.
Nella sommità è presente una fenditura, mentre ai lati vi sono i due appigli ai quali è stata applicata una tracolla ricavata da una corteccia.

 

 

Tamburello di un suonatore del Marocco

Tamburello di legno e pelle

 

Marocco (1938)
Legno e pelle

Per ulteriori informazioni riportiamo quanto segnalatoci da Rehhal Ougdougough (2008-02-10):
Ghenawa o ghenana, gnawa, gnaoua, ecc… sono musicisti neri, all’origine schiavi. Nella loro cultura troviamo un sincretismo con l’Islam, nella sua forma più popolare, attraverso la devozione al ” Marabut” (persona santa e devota) e la costituzione delle confraternite.
Il culto dei santi è elemento importante poiché consente di trasferire in essi le divinità soprannaturali già venerate nell’Africa sub-sahariana politeista.
I ghenawa sono i protagonisti del rituale della “Derdeba”, momento di possessione con il quale culmina il rito religioso che si svolge nell’arco della notte “Lila”.
Lila implica 3 fasi:
– Ada: processione rituale;
– Kuyu: canti e danze all’inizio della cerimonia;
– M’luk: entità soprannaturale che viene venerata nel corso del rito.
Durante la Lila vengono invocati dai Ghenawa spiriti femminili quali le figlie, le mogli del profeta; talora delle sante o delle mogli di Jin allo scopo di curare e liberare le persone dalla possessione…
Il sacrificio di un animale, che precede la cerimonia, avviene nel pomeriggio al suono di tamburi e di crotali dei Ghenawa stessi.

 

Piccolo tam-tam

 

Zaire (1967)
Legno e pelle

Piccolo tam-tam usato dal medico-stregone per richiamare gli spiriti.

Modellino di maschera boliviana

 

Bolivia (1975)

A. Scarpa riferisce:
“Le popolazioni dell’America Latina, in ricorrenze varie, organizzano danze mascherate che si riferiscono ad avvenimenti della loro storia passata, oppure sono d’esorcizzazione per difendersi contro epidemie e pericoli.
Una danza profilattica dei Callahuaya della Bolivia, ora scomparsa, era quella del “danzatore”. In esso venivano trasferiti tutti i malanni fisici e morali del gruppo che organizzava le danze, e che così ne veniva liberato per un anno, mentre il “danzatore”, vittima propiziatoria, doveva ballare e ballare per 5 giorni interi fino alla morte. Al suo apparire tutti gli si serravano attorno raccontandogli le proprie pene e colmandolo di mille attenzioni, le donne offrendogli perfino la propria verginità. Con la morte del “danzatore”, gli Indios si liberavano di tutte le loro calamità (pestilenze, morti, guerra e fame) che avevano trasferito nella sua persona (Otero).
I Callahuaya, etnia di guaritori, affermano che la musica fa parte dei loro metodi di cura. Essi sostengono che il ritmo delle huancaras (specie di tamburi percossi da una mazza a forma di bambola) e dei pinguillos (specie di strumento a fiato) allontana gli spiriti che provocano i mali fisici.
Nelle festività la musica agirebbe come profilassi collettiva.
Altro strumento musicale primitivo molto importante specie per gli Aymarà, è il siku, o flauto di Pan, formato di canne di diverse grandezze.”